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Dalla grande guerra alle lotte per il carovita

La I Guerra Mondiale, seppure vincente, lasciò sul campo quasi 700.000 morti, un’intera generazione di giovani provenienti da un’Italia unita da appena mezzo secolo, giovani che spesso nemmeno conoscevano la lingua nazionale, usata dagli ufficiali per mandarli al macello.


Alla grande amarezza di tante famiglie distrutte si aggiunsero le enormi difficoltà economiche alle quali, sia i reduci sia il resto della popolazione, si trovarono di fronte a causa dell’incapacità del governo di gestire il ritorno alla vita di tutti i giorni.


La crisi economica si aggravò velocemente e si crearono due schieramenti che si contrapposero immediatamente: da una parte i reduci che avevano vissuto la tragedia della guerra e della vita di trincea e che avevano resistito per anni sostenuti dalle promesse del governo di un futuro luminoso alla fine del conflitto; dall’altra il popolo che nella sua maggioranza era stato contrario all’entrata in guerra e che si specchiava nelle idee socialiste. Entrambi vittime di un governo che considerava solo le esigenze del grande capitale, i due gruppi finirono per scontrarsi in una “guerra tra poveri” nella quale si inserì Benito Mussolini, ex socialista, poi interventista senza aver praticamente mai combattuto, che organizzo il “Movimento dei fasci di combattimento” ai quali molti reduci finirono per aderire.


In quegli anni di grande povertà e di scontri per il pane i sindacati lottarono fianco a fianco con i lavoratori e con i braccianti agricoli del Ferrarese e del Polesano e con il Partito Socialista ed il Partito Popolare, fondato da Don Sturzo nel gennaio del 1919, che si fondava sui principi cristiani e che accolse tutta quella parte di molto cattolico che aveva lavorato tra i più poveri per aiutarli a migliorare la propria condizione.


Protagonista delle lotte di quegli anni fu, senza ombra di dubbio, il socialista Gaetano Zirardini, segretario della Camera del Lavoro di Ferrara, che il 6 marzo 1920 ottenne la firma del Concordato Unico Provinciale, noto come Patto Zirardini, che modificava in maniera sino a quel momento impensabile la situazione lavorativa dei braccianti.


Tra le altre cose il Patto Zirardini prevedeva l’imponibile di manodopera, che prevedeva l’obbligo per gli agrari di dare lavoro a 5 operai ogni 30 ettari, dal mese di novembre ad aprile e che mirava ad attenuare il dramma della disoccupazione che attanagliava la massa bracciantile sin dall’inizio della sua comparsa nel mondo del lavoro; migliori trattamenti, sia economici sia morali, ai braccianti, che non solo venivano pagati pochissimo, ma nella maggioranza dei casi venivano considerati delle bestie possedute dai padroni; il riconoscimento degli uffici di collocamento di classe, che strappava dalle mani degli agrari il controllo sulla scelta di chi potesse lavorare su questo o quel terreno.


Il Patto venne firmato dagli Agrari, seppur manifestando immediatamente la loro contrarietà, sotto la spinta di grandi scioperi: per i proprietari terrieri l’imposizione di impiegare 5 operai per ogni ettaro anche nei mesi in cui la terra era a riposo, rappresentava un vero e proprio affronto a quella che loro consideravano la propria libertà d’impresa esattamente come consideravano un vero e proprio affronto il fatto di essersi visti sottrarre il controllo del collocamento, attraverso l’istituzione dell’Ufficio di classe.