Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 tra l’Italia e gli Alleati, gli ex edifici delle Case del Popolo e le Case del Fascio divengono veri e propri bivacchi per i repubblichini e l’esercito di occupazione tedesco. Le forze di opposizione al nazifascismo, già private di luoghi di partecipazione democratica sin dall’ascesa di Mussolini vent’anni prima, sono costrette ad agire ora più che mai nella clandestinità, spesso rifugiandosi nelle aree vallive dell’argentano e del basso Ferrarese, come racconta mirabilmente il romanzo di Renata Viganò L’Agnese va a morire, e da lì condurre la guerra partigiana.
Sarà solo dopo la Liberazione, nell’aprile 1945, che le Case del Popolo, ove non siano state distrutte dai bombardamenti, vengono restituite ai legittimi proprietari. Nel clima di ritrovata libertà democratica e animati dalla forte consapevolezza politica data dalla partecipazione attiva nella Resistenza, i partiti socialista e comunista, così come la CGIL e i braccianti nuovamente riuniti nel movimento cooperativo contribuiscono con il lavoro volontario e l’autotassazione alla riparazione dei danni e alla ricostruzione degli edifici. In alcuni casi tuttavia la situazione appare più complessa. A Longastrino, ad esempio, nel 1932 il fascismo si era impossessato dell’edificio di proprietà del Partito Socialista trasformandolo in Casa del Fascio ed è solo nel 1955, con una sentenza della Corte d’Appello di Bologna, che il Demanio dello Stato è costretto a restituire l’immobile e a pagare le spese dell’istruttoria. Un caso analogo è quello della Casa del Popolo di Migliarino, che fu necessario, di fatto, acquistare tre volte (tra passaggi di proprietà, acquisto di parti di edificio, adeguamento dei locali in base alle leggi vigenti nel dopoguerra, sfratti) fino alla proprietà definitiva da parte dei soci uniti in cooperativa.
In molti casi le ricostituite (o fondate ex novo) cooperative di lavoratori che gestiranno le Case del Popolo, acquistano nuovi terreni in cui edificare nuovi edifici, più grandi e adeguati sia alle esigenze delle comunità sia in grado di rappresentare meglio le forze politiche e sindacali uscite vincitrici dalla guerra e di organizzarne la lotta in un’Italia ancora profondamente divisa.
Se l’esperienza della Resistenza e dell’Assemblea Costituente uniscono le diverse forze politiche in nome dell’antifascismo, è anche vero che nel clima della Guerra Fredda si assiste rapidamente ad un ridimensionamento in senso repressivo delle istanze rivoluzionarie e riformiste che la lotta partigiana aveva alimentato soprattutto tra comunisti e socialisti. Lo sperato cambiamento dei rapporti di classe deve fare i conti, da un lato, con la “ragion di Stato”, la necessità di pacificazione sociale, anche da parte della dirigenza di sinistra (Togliatti in primis); dall’altro lato, e come conseguenza di questa necessità, con la mancata o quantomeno parziale condanna giuridica e storica di quanti avevano preso parte attiva nel regime fascista, che favorirà, tra gli altri, i grandi capitalisti e gli agrari che quel regime avevano sostenuto sin dal principio e che lascerà una traccia profonda negli anni a venire e nel periodo più buio della nostra storia repubblicana, gli Anni di Piombo.
Il quindicennio che va dal 1945 al 1960, in particolare durante i governi Scelba (1954-1955) e Tambroni (1960), vide una forte repressione del dissenso bracciantile. Repressione che andava dal tentativo di depotenziare i luoghi e le aggregazioni proletarie attraverso, ad esempio, l’imposizione – tra il 1947 e il 1949 – di un canone di affitto a carico delle cooperative che amministravano le Case del Popolo (e in molti casi dello sfratto ove non si riuscisse a pagare), alla repressione armata vera e propria durante i numerosi scioperi che si svolsero nelle campagne (soprattutto nelle aree di bonifica) nei tardi anni ’40 e nei primi anni ’50. Alcuni episodi di forte risonanza anche nel ferrarese furono: il grande sciopero nazionale indetto dalla CGIL in seguito all’attentato a Togliatti il 14 luglio 1948 (che vide operai delle grandi città e braccianti delle campagne uniti nella protesta ma che si concluse anche con un alto bilancio di feriti e di arresti) e l’uccisione da parte delle forze dell’ordine della mondina di Filo di Argenta Maria Margotti durante una manifestazione dei braccianti a Marmorta (Bologna) nel 1949. Questi non sono che due dei tanti, tra scioperi e manifestazioni contro il carovita, la mancanza di servizi sanitari, scuole, servizi di base (si ricordi che negli anni ’50 nelle aree di bonifica mancava ancora la rete idrica di acqua potabile), migliori condizioni di compartecipazione tra collettivi agricoli e grandi proprietari agrari che nel primo dopoguerra vennero repressi con la violenza nel tentativo di arginare il consenso attorno ai partiti e ai sindacati di sinistra.