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Le Case del Popolo derubate diventano il simbolo della vittoria agrario fascista e vengono trasformate in Case del Fascio

Le violenze dello squadrismo agrario guidato da Italo Balbo si allargarono in maniera dirompente, tracimando nelle provincie limitrofe. 

Ravenna rappresentava, e rappresenta, un simbolo per la cultura cooperativa italiana, un luogo nel quale, sin dal 1883, un gruppo di braccianti della provincia diedero vita all’Associazione generale degli operai e braccianti del Comune di Ravenna.

Non è un caso, quindi, che Italo Balbo il 12-13 settembre 1921 abbia deciso di mettere in piedi proprio nella città romagnola, per altro confinante con il Ferrarese, la prima vera manifestazione di massa fascista, con una mobilitazione di circa 3000 camicie nere, che aveva come motivazione di “copertura” la ricorrenza dantesca (è nota l’immagine di Balbo, Grandi ed accoliti dinnanzi alla tomba di Dante, assieme ai genitori dell’eroe di guerra Francesco Baracca). Si trattava  di un primo esperimento di marcia verso una città che doveva servire, con grande probabilità, a tastare il polso all’organizzazione fascista in vista di un possibile attacco alla capitale, la marcia su Roma, che avvenne effettivamente il 28 ottobre 1922. In realtà si trattava, è evidente, anche di un messaggio espresso con violenza e in maniera inequivocabile contro una provincia che meglio di tante altre stava gestendo con successo un tipo di economia agricola alternativo a quello dei grandi agrari. 

Sarà quasi un anno dopo, tre mesi prima della marcia su Roma, che la notte tra il 27 e il 28 luglio 1922 il gruppo di terroristi fascisti, guidati da Italo Balbo, assaltarono il Palazzo della Federazione delle Cooperative, riducendolo ad un ammasso di macerie ed impadronendosi di tutto ciò che di valore era contenuto al suo interno. 

La scusa per mettere in atto questa azione violenta e distruttiva era stata offerta a Balbo e agli agrari da quella che è nota agli storici come strage di “Porta Adriana”, che avvenne a Ravenna il 26 luglio 1922, il giorno precedente all’attacco squadrista di Balbo e dei suoi. Quel giorno, infatti, a causa di una vertenza sindacale, determinata dall’assegnazione di un contratto di monopolio per i trasporti agricoli al sindacato autonomo fascista, migliaia di lavoratori proclamarono lo sciopero; giunsero braccianti e birocciai da tutta la provincia e trovarono guardia regia e fascisti che compattamente si rivolsero contro di loro. Venne  aperto il fuoco contro gli scioperanti e alla fine si contarono nove morti: otto di parte operaia, uno, Giovanni Balestruzzi, che stava a capo del sindacato autonomo fascista, contro il quale era stato indetto lo sciopero. 

Gli squadristi fascisti ed il loro capo, al soldo degli agrari che volevano cancellare dalla faccia della terra il sistema cooperativo che garantiva ai lavoratori agricoli una vita migliore, perseguivano il fine di favorire gli interessi dei proprietari terrieri che volevano gestire direttamente i lavoratori per poter continuare a fare di loro dei moderni “servi della gleba”, con paghe da fame e senza nessun diritto.  Si trattò di un altro tassello della distruzione sistematica di tutti i presidi democratici che Balbo e gli agrari volevano mettere in atto per consentire al fascismo, che ormai una grossa parte di borghesia liberale aveva accolto come proprio paladino contro il socialismo, di arrivare al potere.

Non è un caso se il giorno seguente il sindaco di Ravenna e quello di Forlì incontrarono i capi fascisti e firmarono un “patto di pacificazione” che riconosceva il Partito Fascista e formalmente gli lasciava mano libera nelle terre romagnole. 

È questa la logica che verrà usata dai terroristi squadristi e dai loro finanziatori agrari prima nel ferrarese e poi in tutta l’Emilia Romagna. Per comprendere ancora meglio ed in maniera conclusiva la logica di questi sovvertitori della democrazia, due episodi, avvenuti tra Ferrara e Bologna il 29 maggio 1922: il primo a San Giorgio di Piano dove gruppi di fascisti provenienti da Ferrara, come scrive Roberto Neri nel suo volume Marcia verso la dittatura, “approfittarono della sosta per seviziare sindaco e assessori a domicilio (il municipio era già stato arso l’anno prima), bruciare la Casa del Popolo e incenerire un paio di sedi democratiche”; il secondo sempre in zona, a Ponte Rosso di Gherghenzano, dove  i fascisti saccheggiarono un negozio di alimentari e gli diedero fuoco, quindi uccisero Elmiro Forlani, un salumiere quarantenne che sportosi dalla finestra cercava di dissuaderli.

Questo è il clima che accompagnò la scalata al potere di Benito Mussolini che, dopo le clamorose sconfitte elettorali del 1919 e del 1920, sembrava essere uscito dalla scena politica o, almeno, rivestire un ruolo marginale.

Furono gli agrari ferraresi e il loro scudiero Italo Balbo, assieme all’ex sindacalista rivoluzionario Edmondo Rossoni, passato al soldo di quelli che aveva a lungo ed aspramente combattuto, che con un uso capillare della violenza e della distruzione, applicata a persone e cose, riuscirono a rimettere il fascismo nazionale sui binari che avrebbero condotto l’Italia ad una dittatura devastante che cooperatori, braccianti, uomini delle leghe e partiti democratici furono i primi a conoscere sotto i colpi del manganello, delle bombe, delle armi a ripetizione degli squadristi del fascismo agrario.